Poche volte mi sono sentita destinataria ideale di un romanzo come quando ho cominciato a leggere le prime pagine di Space Opera. Con una certa qual arroganza, va ammesso, mi sono ritrovata a chiedermi quante persone nella Penisola rientrino nella minuscola intersezione tra due vere e proprie nicchie: i lettori di fantascienza e gli appassionati di Eurovision Song Contest, la gara canora nata su ispirazione del Festival di Sanremo che proprio l’Italia ha finito per snobbare dopo l’annata in cui i Jalisse hanno sbancato all’Ariston e la RAI ha sbottato No, Eurovision, io me ne vado, lasciando inspiegabilmente la gara e il suo posto da big per anni e anni.

Col tempo ogni nodo viene al pettine e ogni impresa impossibile diviene fattibile: l’Italia è tornata a gareggiare e perdere per un soffio ostacolata dai complotti dei poteri forti europei, una scrittrice statunitense come Catherynne M. Valente ha scoperto per caso l’ESC (affettuoso acronimo Twitter friendly di Eurovision Song Contest) e una piccolissima casa editrice di nome 21 lettere ha deciso di lanciarsi nell’epica impresa di pubblicare un romanzo di fantascienza finalista dello Hugo nel 2019. Tutto è possibile. Tutto nasce da un invito senza condizioni a una scrittrice professionista che a un decennio e più dal suo esordio letterario ancora si barcamena tra crowd funding e Patreon, a riprova di quanto il mondo editoriale sia diventato professionalizzante per i pochissimi che fanno grandi numeri o che sono ricchi in partenza. Ospitata da amici europei, Valente si sente porre come una condizione il fatto di partecipare a un Eurovision Party; una sorta di festa che gli appassionati dell’evento fanno con gli amici mentre si guarda in diretta la finale annuale del concorso, scoprendo quale nazione vincerà ed ospiterà il gioioso circo lustrini, glitter e canzoni impossibilmente pop l’annata successiva.

Non c’è competizione meno statunitense dell’Eurovision e non solo perché le Americhe non vi partecipano (l’Australia e Israele sì, ma è una storia lunga). È lo spirito della gara, improntata sulla fratellanza e solidarietà tra popoli – invasa da glitter e scarsa eterosessualità di una bella fetta di concorrenti ambosessi terribilmente piacenti e che ci credono fermamente – a trionfare sulla battaglia per la vittoria. Fatto che rende l’ESC la gara canora e non meno americana mai concepita.

Per Catherynne M. Valente è una rivelazione. Dopo il suo bizzarro party iniziatico, comincia a seguire l’Eurovision come se fosse una religione, ad ascoltare le canzoni trascinata dalla genuina convinzione che il loro ritmo ballabile e le mirabolanti esibizioni connesse le renda delle immortali hit, a tentare di convertire al verbo eurovisivo ogni essere umano circostante. Se questa descrizione risulta particolarmente vivida è perché è esattamente quello che è successo a me nel 2011, quando l’Italia è tornata a gareggiare ed è arrivata seconda, ngh. Proprio per questo motivo, scottata da un inizio 2020 letterario assai deludente, mi sono aggrappata a Space Opera come ad un’ancora di salvezza: Eurovision e fantascienza, cosa poteva mai andare storto?

Il romanzo infatti nasce da una battuta scherzosa su Twitter di un utente che esortava la Valente a fondere la scrittura di genere e l’Eurovision. Valente ride, poi ci pensa su e realizza che, dopo tanto Urban Fantasy e la fortunata saga di Fairyland, un tentativo lo si può anche fare.
Nasce così un romanzo che la traghetta in finale nella categoria più prestigiosa dello Hugo Award, un libro unico nella sua produzione e nel suo genere: nato come uno scherzo letterario, la space opera che porta uno sgarrupato gruppo glam rock inglese a competere al Gran Premio Galattico contro tutte le specie aliene senzienti della galassia diventa un suo grande successo. Un arco narrativo degno di una storia commovente eurovisiva, in effetti.

Nell’equivalente eurovisivo intergalattico in palio c’è la sopravvivenza stessa del genere umano, che solo evitando di arrivare ultimo nella finale potrà provare di essere davvero senziente e guadagnarsi la salvezza. Individuati dalle specie aliene sopravvissute a una sanguinosissima guerra per il controllo delle risorse spaziali, gli umani vengono contattati da una sorta di bizzarro popolo di fenicottero-pesci azzurri, gli Esca (pun intended) e messi a parte della loro partecipazione forzata. Gli alieni hanno già vagliato i cantanti terrestri e compilato una lista di papabili concorrenti, in linea con i gusti intergalattici. Peccato siano tutti morti, con l’esclusione dei due terzi degli Absolute Zeros, un trio glam rock che ormai da tempo si è lasciato alle spalle la gloria, distrutto da tutti gli ingredienti base del rock: incomprensioni, egomanie, successo e incapacità di dialogare e perdonarsi. Etnicamente e sessualmente parecchio fluidi quando non stramboidi – pur rimanendo inglesi nel midollo – Decibel Jones e Oort Sant’Ultravioletto s’imbarcano su una bizzarra astronave e si preparano ad esibirsi in finale, sempre da riuscire a sopravvivere all’incontro con le specie aliene più competitive che mai.

Ora, sulla carta è la materia di cui sono fatti i miei sogni, tanto che non ho avuto problemi ad individuare le citazioni eurovisive contenute nei titoli dei capitoli nemmeno una volta. Tuttavia il motivo che ha decretato il successo del romanzo e forse la decisione coraggiosa di 21 lettere di pubblicarlo in Italia è che sopra ogni cosa Space Opera è un chiaro omaggio a un altro mito inglese: quello di Douglas Adams e della sua Guida galattica per autostoppisti.
Valente infatti infarcisce di quell’ironia paradossale ed esistenziale tutto il suo romanzo, raccontando per interi capitoli aneddoti risalenti alle precedenti edizioni del Gran Premio Megagalattico apparentemente privi di scopo e ricchissimi di bizzarrie ed elementi nonsense. Su questo terreno io sono decisamente più freddina, già quando si parla dell’originale. Tanto amo la malinconia e la cupezza di certa letteratura inglese, quanto francamente reggo a stento il nonsense o la comicità fatta per accostamenti bizzarri di Adams. Aggiungiamoci anche che la scrittura della Valente è molto complessa per fraseggio e talvolta pesante nella sua ricchezza (tanto che non sempre la traduttrice Alice Zanzottera riesce a starle dietro) e capirete come mai, con mia somma disperazione, ho faticato e parecchio a seguire Decibel Jones nella sua prima parte di viaggio spaziale.

Fattoci un po’ il callo però Space Opera è una lettura tutto sommato gradevole. Venendo da parecchie letture SFF che di genere lo erano per modo di dire, in cui gli elementi propri della fantascienza e del fantastico erano gestiti con un semplicismo da dilettanti allo sbaraglio, ho particolarmente apprezzato il fatto che invece Valente è davvero una scrittrice di genere. Se la premessa del romanzo può sembrare una sciocchezza, non lo è il messaggio e il costrutto che lei gli ricama attorno, spesso con un discorso fanta-scientifico coerente e articolato. Può sembrare un’assurdità che le specie alieni superiori della galassia valutino la senzienza altrui sulla base della capacità di partecipare a un discorso canoro, ma l’autrice a più riprese mette in discussione gli assunti stessi attraverso cui gli umani misurano la loro stessa intelligenza, ricordando le inutili stragi compiute ai danni di altre specie e dei loro stessi simili. Valente fa interrogare lo stesso lettore su quanto il linguaggio e l’avanzamento tecnologico tutto da comprare con altre forme di vita possa renderci più senzienti di un gatto o dei famosi delfini di Adams.

Il criterio alieno è estetico e artistico, quasi a suggerire che se puoi prendere davvero sul serio il carrozzone eurovisivo, allora hai già passato la fase in cui dai per scontate le regole minime del rispetto verso la vita altrui. Nei tanti capitoli che arricchiscono la storia delle specie partecipanti alla gara, tra le varie tipologie aliene Valente si diverte a seminare vizi tutti umani ed eurovisivi, ritraendo un gruppetto di popolazioni extraterrestri in cui davvero pochissime sono così senzienti da non mettere al centro sé stesse, gareggiando lealmente.

Il romanzo però risulta un po’ squilibrato. Nella grande galleria di ritratti alieni ci sono soggetti davvero interessanti dalle caratteristiche fantasiose o scientificamente affascinanti (vedi tutto il sistema dei tunnel spaziotemporali), però alla fin fine quando ci si ritrova al party di benvenuto si fatica ancora a capire chi sia chi, perché il gruppetto di personaggi davvero importanti è ben più ristretto. Forse a mancare davvero è stata la voglia di trasformare uno divertissement letterario in una sfida ancor più ambiziosa, lasciando parecchi fili narrativi senza conseguenze e scegliendo un finale sin troppo rassicurante. Tuttavia ripensandoci capisco di essere in errore soprattutto io. Infatti se un romanzo è scritto in pieno spirito eurovisivo, non si può certo rimproverargli di essere iperpositivo e propositivo sino allo stucchevole. È esattamente l’errore che commettono i detrattori dell’ESC, che non riescono a lasciare da parte la loro stizzosa serietà nel prendere sul serio quella che – tragicomicamente – è una delle circostanze che rende davvero unito il continente europeo.

Raggiungiamo un paradosso degno di Douglas Adams se il romanzo che la celebra ha finito per scriverlo un’americana. Rimango dell’idea che, un po’ per scarsa dimestichezza con la fantascienza e l’Eurovision, un po’ perché l’avvio del romanzo è abbastanza impegnativo tra citazioni e nonsense, Space Opera non sia un libro di fantascienza per tutti. Se però amate la produzione di Douglas Adams, allora siete probabilmente il pubblico giusto. Valente non è la scrittrice fantascientifica che preferisco, perché ha uno stile davvero pesante per me da leggere, qui e in vari racconti brevi che ho avuto modo di leggere in anni passati. Tuttavia tra i suoi fan si annoverano Max Gladstone e un certo Christopher Priest, quindi nel genere ci sguazza bene, eccome.



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